venerdì 17 ottobre 2008

L'architettura non è il costruire (!)

(estratti)


Ma è utopia o parodia? - Alla Biennale di Aaron Betsky ci si imbatte in manichini di single, in battiti cardiaci che simulano rumori di cantiere, in meduse spogliarelliste. Decisamente si è andati «oltre l'architettura».
Essere o non essere? Vivere o costruire? Sperimentare o rappresentare? Partito da Amleto si è risolto nelle Allegre Comari di Windsor l'interrogativo dell'undicesima Mostra Internazionale di Architettura curata per la Biennale di Venezia dal direttore del Cincinnati Art Museum, Aaron Betsky.
Chi si aspettasse risposte o proposte sul ruolo dell'architettura, non vi troverà né disegni né modelli, ma la simulazione di una «gaia erranza» attraverso l'affastellata sequenza di «enigmi e rompicapo» distribuiti con generosità di mezzi spettacolari lungo le tenebrose gallerie dell'Arsenale.
Installazioni per evocare il fantasma del subconscio (Asymtote), battiti cardiaci che sostituiscono i rumori del cantiere (Coop Himmelb(l)au), manichini sospesi per celebrare le culture dei single (Droog&Kesselskramer), hyperhabitat di mondi digitali (Guallart Architects), meduse che simulano «una matrioska russa che si esibisce in uno spogliarello» (Hadid), giocattoli riciclati (Greg Lynn), eccetera.
Architettura come arte, insomma? O coraggioso rilancio del "principio-speranza" legata alla grande tradizione dell'Utopia?
Non è facile addentrarsi nelle suggestioni critiche di testi e manifesti avvolti in un linguaggio ermetico che offre parecchie sfide alla decifrazione. Ne è comodo abbozzare spiegazioni che rischiano di riportare il discorso nei limiti del crudo realismo di chi teorizza la mera coincidenza dell'architettura con l'arte della costruzione. Eppure è difficile sfuggire alla sensazione che la parola d'ordine di Betsky, «oltre l'architettura», sia tutt'altro che quell'alternativa critica a un'arte avvolta nei contorcimenti di «un lungo suicidio».
(...)
Ma, pur tralasciando il paradosso di una provocazione affidata ad architetti - da Gehry ad Herzog&deMeuron od Hadid che per commesse come lo stadio di Pechino o i nuovi musei di Abu Dabi sono disposti a passare sopra ogni remora politica, cosa ha a che vedere questa parodia dell'utopia con la stagione tragica della "catena di cristallo" degli espressionisti tedeschi: i primi, a cavallo della grande guerra, a decidere di astenersi dalla professione per rifondarla, subito dopo, sulla terra coltivata da lancinanti contraddizioni?
A un'epoca che è ritornata a pensare all'architettura come rifugio contro la catastrofe, Betsky sembra dunque offrire la sarcastica proposta di Maria Antonietta prima della catastrofe: «non hanno pane? Dategli brioches».
L'architettura «non è il costruire»: deve andare oltre gli edifici, «perlopiù brutti, inutili e dispendiosi». Ma lo scenario utopico proposto nelle due sezioni dell'Arsenale e del padiglione Italia ai Giardini rassomiglia più a una collazione di stereotipi che a vere e proprie sperimentazioni. Pochi esempi interessanti - le quintas popolari del cileno Aravena, gli edifici di riciclo dei 2012 Architecten, le container-cities dei Lotek, eccetera - testimoni delle difficoltà del fare, galleggiano nell'iper-spazio di visioni che non anticipano il futuro ma ricidano vecchi riti per nuovi miti.
Come quelli della sostenibilità e dell'ecoconsapevolezza, spesso parodie etiche di parole d'ordine agitate come turiboli d'incenso per scacciare i demoni della tecnologia.
Sull'ultimo numero di Neewsweek, Cathleen McGuigan ha sarcasticamente stigmatizzato l'"eco-mania" con cui cerchiamo di assolvere sbrigativamente i nostri debiti verso la Natura e i principi tradizionali dell'arte del costruire: «raggiungere una vera sostenibilità è molto più complicato di quanto la pubblicità e il mercato suggeriscono».
Non basta distribuire piante verdi sulle facciate, né piantare alberi sull'asfalto o coltivare cavoli sul terrazzo di casa: certo, se questo è lo scotto da pagare per una ricerca che si interroghi sulle distopie dell'urbanizzazione planetaria, siamo disposti a pagarlo. Ma la Biennale non è Floriade, e ciò che accade "là fuori" nei giardini sulla laguna, nonostante tutto, ci interessa assai.
(...)

di Fulvio Irace


ebbravo prof.
non mi piacciono molto i pensieri troppo radicali. soprattutto in architettura.

correggo il titolo per come la vedo io: L'architettura non è solo il costruire.

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